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Empatia e social media


Che effetto hanno i social media sull’empatia? Domanda su cui rifletto abbastanza spesso e al centro di un capitolo del libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” di Jaron Lanier, giornalista e informativo della Silicon Valley, pioniere della realtà virtuale. Che sia un tecnico del digitale a scrivere un libro del genere fa riflettere e non poco. Sarebbe stato più scontato che un libro simile provenisse dal mondo dell’educazione per esempio.

Ad ogni modo, qui l’aspetto su cui vorrei concentrarmi è la ragione numero 6 che l’autore spiega: i social media abbassano la tua capacità di provare empatia, si tratta proprio di psicologia digitale! Già tempo fa avevamo parlato di emozioni e Facebook a proposito di una ricerca fatta ormai qualche anno fa dal colosso di Menlo Park sulla manipolazione emotiva degli utenti. In questa sede non si parla esattamente della stessa cosa anche se ovviamente dei processi attivati sono simili.

Ma veniamo a noi e capiamo per bene ciò che Lanier ci spiega nel suo sesto capitolo, perché le riflessioni che solleva sono abbastanza sottili e non così immediate. Si tratta in fin dei conti della ricerca di un equilibrio digitale.


Come possono i social media agire sull'empatia?


L’empatia non è altro che la capacità di mettersi nei panni dell’altro, comprendere ciò che può provare e immedesimarsi nella sua situazione. Si tratta di una competenza utile e direi pressoché necessaria al fine di instaurare delle relazioni significative con le persone (che si tratti dell’ambito professionale o personale). Tale competenza viene appresa durante lo sviluppo dell’essere umano proprio dall’interazione continua con l’altro. Dunque le relazioni che stringiamo e abbiamo nell’arco della vita diventano una palestra emozionale.

Dov’è il problema nei social media? Il problema, per come lo spiega Lanier, sta nel fatto che sui social media siamo incastrati nella nostra filter bubble, ovvero in una bolla invisibile che ci protegge da eventuali confronti con il diverso e quindi veniamo a contatto sempre con informazioni che andranno a confermare ciò che già pensiamo e crediamo. Insomma il social non ci da l’occasione in modo esplicito, di interfacciarci con il diverso, di scoprire punti di vista diametralmente opposti al nostro, piuttosto va ad agire come conferma continua delle nostre già consolidate opinioni.

In questo senso non si tratta proprio di un allenamento al mettersi nei panni altrui perché questo è un esercizio che diventa difficile quando proviamo a farlo con persone che vivono situazioni molto diverse dalle mie. Cercare di provare ciò che una persona che già la pensa come me, prova è un esercizio semplice. Farlo con chi si trova in un altro ordine di opinioni molto meno.


Conclusione


Tutto il libro è interessante e in un certo senso si pone nel filone del digital detox ma anche se non vogliamo fare scelte estreme, possiamo comunque prendere gli spunti dell’autore come dei consigli di digital mindfullness. In ogni caso, come già abbiamo sollevato tempo fa, ci vorrebbe Il codice della strada di internet, o comunque una regolamentazione un po’ più contenuta su ciò che si può fare in quello spazio proprio per tutelare il benessere umano.

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