Per rispondere a questa domanda iniziamo dal futuro, l'avvocato Bruno Arbanassi si è immaginato una conversazione nel 2070 in cui il nonno è un avvocato in pensione e la nipote è una giovane lavoratrice virtuale per la sicurezza sul lavoro.
Nipote: “Nonno, è vero che quando lavoravi negli anni ’20 esisteva un dibattito sul lavorare "smart" e a distanza grazie alla tecnologia?”
Nonno: “Esisteva, esisteva. Il sistema educativo e la cultura dei tempi passati avevano fondato il mondo del lavoro sul rapporto di socialità in presenza dove il luogo fisico e l’orario di lavoro erano due capisaldi fondamentali nel rapporto tra datori di lavoro e lavoratori e nei rapporti tra colleghi. Comunque, nonostante questo, avevamo iniziato a fare un sacco di videochiamate in un periodo pandemico e si cercava di costruire nuovi scenari per il lavoro smart ed a distanza!”
Nipote: “Videochiamate? Guarda me nonno! Per lavorare non devo fare altro che indossare il mio visore o i miei videocchiali. Qualsiasi luogo è utile e posso farlo in qualsiasi momento perché se devo incontrare colleghi non è necessario entrare in virtuale contemporaneamente. Possiamo utilizzare tempi differenti e paralleli grazie alla registrazione permanente delle nostre sessioni di lavoro.”
Nonno: “Piano piano! Non correre troppo con questo tuo nonno. Ricordati che ho vissuto il mondo analogico prima di quello virtuale. Mi stai dicendo che con la realtà virtuale di lavoro puoi incontrare gli altri senza esser collegati simultaneamente? E come fate? Parli ad una registrazione? Dai su, non prendere in giro un vecchietto”
Nipote: “Ma dai nonno, te l’ho spiegato mille volte. Grazie all’AI, i nostri alter ego virtuali sono in grado di elaborare manifestazioni del nostro pensiero anche quando siamo in sessione di recording. E’ così semplice...”
Nonno: “Sì, sì hai ragione. E’ proprio semplice. Ma va là!
Nel mondo sempre più virtuale quali sono le regole del lavoro?
Lo scenario sopra è frutto di fantasia, certo. Ma la domanda da porsi potrebbe essere: le regole del lavoro, in una realtà virtualizzata dalla tecnologia, su quali valori saranno create?
Da avvocato e giurista, come tanti colleghi che si occupano di regole, mi impegno nello studiare, comprendere, interpretare e suggerire la miglior applicazione possibile di codici di comportamento a situazioni concrete della vita “analogica”. Più nello specifico nel mondo delle regole del lavoro.
Considerato però l’avvento della digitalizzazione, delle Cryptovalute, degli NFT, dell’ AI, dell’IOT, del Metaverso, è giunto il momento di affrontare anche da un lato giuridico il rapporto che passa e potrà passare sempre più tra datori di lavoro, lavoratrici, lavoratori e la tecnologia che digitalizza la vita analogica.
In questa occasione proverei a valorizzare un aspetto che in questi tempi pandemici è emerso prepotentemente: la connessione digitale nei rapporti di lavoro.
Senza questa tecnologia, non sarebbe forse nemmeno immaginabile come avrebbe potuto impattare una pandemia in un’ economia della globalizzazione. Essere connessi è probabilmente ormai uno status personale di molte lavoratrici, di molti lavoratori, di svariati contesti organizzativi del lavoro. Se partiamo da questo dato come accettato, il compito, di chi non voglia farsi sopraffare da ciò che ha creato, inizia a diventare quello di immaginare le regole di comportamento da adottare.
Diritto alla disconnessione: come usarlo in modo adeguato
L’esperienza contemporanea ci ha fatto conoscere su larga scala relazioni di lavoro da remoto, di telelavoro, di modalità agile o a distanza dalle classiche sedi aziendali di socialità e il diritto/dovere alla disconnessione appare un punto fermo su cui concordano sia datori di lavoro che lavoratori che legislatore.
Il diritto alla disconnessione è stato sino ad oggi studiato come un diritto collegato alla durata massima dell’orario di lavoro (sia nel contesto dell’Unione Europea che dell’ordinamento italiano) e al periodo di riposo minimo tra la fine di una giornata lavorativa e l’inizio della successiva.
Ma forse c’è di più nel concetto di disconnessione.
Da un lato potrebbe essere valorizzato a livello giuridico anche in maniera diversa e dall’altro potrebbe essere valorizzato anche a livello educativo in prospettiva futura. Se la disconnessione nella sua dimensione giuridica la limitassimo al concetto di diritto/dovere a scollegarsi dalla tecnologia utilizzata allo svolgimento dell’attività lavorativa per rispettare l’obbligatorio periodo di riposo tra una giornata di lavoro e l’altra, probabilmente non otterremmo la finalità fondamentale del comportamento di disconnessione.
Quale? La piena tutela del benessere psichico e del tempo di riposo.
Ma allora come si potrebbe valorizzare, in via ulteriore, la dimensione del comportamento di disconnessione? Si potrebbe ipotizzare, agendo sul diritto/dovere alle pause dalla connessione digitale. Come?
Definendo chiaramente pause, tempi di recupero obbligatori dall’utilizzo consecutivo di tecnologia di connessione digitale (i classici devices utilizzati per connessioni digitali) da adottare durante l’orario e/o l’attività lavorativa come già accade in una certa misura per i videoterminalisti secondo quanto previsto dal decreto legislativo del 2008 dedicato alla salute e sicurezza sul lavoro;
Definendo programmi formativi obbligatori -o anche utilizzando il sistema di welfare aziendale- dedicati a managers e collaboratori sull’utilizzo consapevole delle tecnologie che abilitano alle connessioni digitali (primo fra tutti sulla gestione del tempo in rapporto all’utilizzo dello smartphone)
Fuori dal contesto dei rapporti di lavoro, istituendo nei percorsi obbligatori scolastici momenti dedicati all’educazione digitale sull’esistenza e sulla necessità di rispettare un diritto/dovere di disconnessione
L’anziano nonno avvocato e la giovane nipote lavoratrice virtuale potranno raccontarci di come un comportamento di disconnessione sarà divenuto un vero e proprio valore nella loro epoca?
Autore dell'articolo: Avvocato Bruno Arbanassi.
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